Achille Pannunzi

le Poesie con la voce dello stesso Autore e di Alberto Rapone

Dire, a Subiaco, Achille Pannunzi, è citare il nome di un uomo (ma anche di uno sportivo) e di un poeta che ha saputo esprimere ,descrivere e ricordare nel più stretto e schietto dialetto sublacense, stati d’animo, luoghi, tradizioni, personaggi caratteristici ,storie ed antichi mestieri della sua città, di quella Subiaco da lui tanto amata fino al 18 marzo del 2007, giorno in cui è stato costretto a salutarla per sempre.

I DU FORNETTI VOCE DI ACHILLE PANNUNZI
LA BARELLA VOCE DI ALBERTO RAPONE
A SUBIACU VOCE DI ACHILLE PANNUNZI
JU NEONATU VOCE DI ACHILLE PANNUNZI
LA FIOGNA
JU SORDATU
I TEMPI E MUSOLINI
CAPUSANTU VOCE DI ACHILLE PANNUNZI
A COROSUZZO E NUCI
LA GUTTA
PARAPA’
BARBARELLA
PENNAZZA
LUDOVICO GENTILINI
JU DIRILLO’
I RITRATTI

E’ stato, Achille Pannunzi, un autentico poeta dialettale, tanto da essere riuscito ad imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi di espressioni in vernacolo, ricevendo per questo anche un premio dall’Accademia Internazionale di Propaganda Culturale del Lazio. Sarà dipeso dal suo carattere che gli consentiva di vedere, per così dire, le cose dall’alto; per quella sua spontanea tendenza alla satira, fatto sta che ad Achille Pannunzi bastava una matita ed un qualsiasi foglio di carta per tradurre in versi all’istante ciò che egli riusciva a percepire, magari entrando in un negozio o passeggiando per il centro di Subiaco. “Era il 1935 – mi spiegò una volta – quando quasi per scherzo iniziai a comporre rime, prendendo pure confidenza con la creazione di alcune satirette nelle quali ho fatto parlare anche qualche animale”. E’ stato, insomma, Achille Pannunzi, un poeta – cronista di cose locali, specialmente per quanto riguardava la riscoperta di personaggi caratteristici. “Infatti – mi rivelò – sono particolarmente legato alle persone della vecchia generazione, cioè a coloro che conducevano la vita di tutti i giorni, anche perché di loro ne abbiano conoscenza i giovani di Subiaco”. Però Achille Pannunzi non è stato solo poeta in vernacolo, perché molte sono state le composizioni in lingua che ne portano la firma. Si trattò di una esperienza per lui piacevole, nelle quali faceva parlare la natura, lo scorrere delle acque dell’Aniene, il cadere delle foglie; lo sbocciare dei fiori. “E’ bello – mi confidò – la sera raccogliersi davanti al caminetto di casa e mettere in versi aspetti particolari della vita”. E mentre parlava, Achille era solito trarre dalla tasca piccoli fogli di carta con su scritte a mano alcune delle sue poesie. Su ogni poesia, c’era un titolo: L’eredità, La tombola, I tre cani. Fogli ingialliti dal tempo, ma che per Achille Pannunzi, poeta sublacense, rappresentavano la cosa più importante, perché erano in fondo sue creature.

(Fabrizio Lollobrigida)

aggiungiamo un articolo pubblicato da Anio Novus Blog del 2015

In questo articolo parleremo di Achille Pannunzi, noto nella città di Subiaco per essere stato prima un calciatore e poi un poeta nel vernacolo locale. Scomparso nel 2007, Pannunzi ha avuto il merito di far emergere dal ghetto il dialetto sublacense, creando intorno ad esso un rinnovato interesse grazie soprattutto alla sagacia dei suoi testi, che a volte erano assai irriverenti.

Pannunzi è nato nel 1921 ed è vissuto a Subiaco, condividendo con molti suoi compaesani la sorte di pendolare a Roma. Negli anni ’40-’50 del 1900 fu centravanti in squadre di serie C, segnalandosi per i suoi 288 goal.

L’indimenticato poeta-centravanti di Subiaco, pubblicò nel 1984 Na rattattuglia ’e versi, una raccolta di poesie in dialetto sublacense, di cui era un esperto conoscitore, con l’intento di contribuire alla conservazione del patrimonio linguistico dialettale della sua città. Il libro è stato poi ripubblicato, nel 2007 dal comune di Subiaco, con l’aggiunta di cinque poesie inedite.

I suoi versi, ha affermato nella presentazione Giovanni Prosperi, “incarnano il vissuto di un ‘luogo’, sviscerano in maniera passionale la quotidianità di Subiaco, di questo piccolo centro in cui tutto avviene con sincerità e ipocrisia, con passionalità e ritrosia, con dolcezza e disincanto.” L’ironia (e l’autoironia) pervade a tal punto la sua opera da “rendere i suoi versi potentemente caratterizzanti i personaggi

e il luogo, allontanandoli così dagli angusti confini di una rischiosa ‘cronaca provinciale’.” Ciò contribuisce a far in modo – osserva ancora Prosperi – che svolga un “canto sommesso ed epico, di una Subiaco non più idealizzata, ma accuratamente passata al setaccio di un osservatore vigile, moralmente vigile e però scevro da giudizi o pre-giudizi moralistici.”

Rattattuglia, vocabolo del dialetto locale (derivato dal francese ratatouille), indica confusione, miscuglio, e quindi Pannunzi voleva indicare una quantità e varietà disordinata di argomenti che però nel libro vengono distinti in cinque sezioni.

Nella prima (“Subbiacu ’e n’òta”) egli passa in rassegna la cittadina, delineandone con efficacia luoghi, personaggi, feste e usanze del tempo della sua infanzia.

Nella sezione “Animali”, in cui rivivono con le loro storie, le poesie meglio riuscite sono quelle dedicate agli animali con i quali l’autore ha avuto più consuetudine e a cui esprime la sua solidarietà. Come a quell’asino vecchio, abbandonato, alla mercé di mosche e tafani che non riesce a scacciare a colpi di coda, che, rimasto legato sotto il sole cocente, raglia disperatamente, mandando al suo padrone nu furione de mortacci.

Nella terza sezione intitolata “’N po’ de tuttu” prevalgono temi e umori vari. Si svaria dal ritratto rabelesiano (in “Alla spiaggia”) di un’iperdotata bagnante ad una denuncia sull’avvelenamento (“Ju ’nquinamento”) dell’Aniene in cui la pena del poeta per il degrado del fiume si stempera nell’immagine buffa della trota che apre la bocca e fa sette bolle di sapone.

Nella quarta sezione intitolata “Campusantu” Pannunzi ritrae, quasi ad esorcizzare la morte, scene sul cimitero di Subiaco e dintorni. La poesia “I manifesti funebri” è incentrata sulle chiacchiere tra amici su chi è morto. Sappiamo, commenta il poeta, che la morte è fetente e che bisogna sempre stare in campana ma quello che stupisce è che ad ùgni morte, écchi, mamma méa, /ugnunu ci arécaccia chélla séa. // Ieri s’ha morto Giggi a quarantanni, / cusì se ne riscine ju Garoppo: / “Chigliu si gli à cercati ’ssi malanni: / fuméa, magnéa, e

beéa troppo.” / Ammece po’quandu murì Richetto / a novant’anni, isse Romoletto:// Tantu à campatu e mo’ vane all’inferno. / Che s’ha gudutu? Me paréa nu jodo; / che ci racconta mò a gliu Padr’Eterno, / se ’n sà strozzatu mancu poco ’e brodo?/ Non s’ha missu n’óccó sotto a gli jénti / e ha lassatu tuttu a gli parenti.” Un delicato lirismo connota le poesie, tutte dal verso breve, della sezione intitolata

“Senza rima”. La poesia “Univérzo” (anch’essa in antologia) che conclude questa sezione rappresenta il dignitoso commiato del poeta dalla vita terrena per aprirsi all’universo che non gli fa più paura.

Al poeta continuano no ad essere intitolati concorsi e rassegne di poesie, che testimoniano quanto importante sia stata la sua opera.